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I dati di audience e il sangue che scorre in tv

Il crollo degli ascolti non è mai una bella cosa. Principalmente per il fatto che il tuo lavoro su quel canale televisivo o in quella emittente radiofonica diventa molto precario. Qual’è allora il difetto di “Politics” di Gianluca Semprini? Sinceramente è difficile, non essendo dei critici televisivi, dire quale possa essere il difetto rispetto a quale possa essere il pregio da valorizzare.
Una cosa però la si può dire: la concorrenza è davvero agguerrita. Giovanni Floris è una macchina da guerra perfettamente rodata. Come disse qualcuno su Twitter paragonandolo a Giannini nell’allora agone televisivo tra Raitre e La7 Floris è l’usato sicuro mentre Giannini è il nuovo in rodaggio. Si potrebbero spendere parole e parole sull’avventura di Giannini a Raitre. Ma si può riassumere in una frase: senza gemme grosse il diadema non viene fuori.
Se proprio si vuole azzardare una spiegazione alla debacle di Semprini bisogna risalire al fatto, molto probabilmente nominato da tanti, che la tv dove Semprini è nato e cresciuto è una tv diversa da quella in chiaro. Ma non perché si paga o meno a vederla, ma perché il pubblico si aspetta qualcosa che nel generalismo di prima serata in chiaro c’è. E questo qualcosa non è la rissa più o meno verbale.
Floris, anche quando aveva ospiti troppo chiassosi su Raitre, li faceva sfogare. Glielo dava il quarto d’ora d’aria libero. E gli ascolti premiavano. Semprini è molto attento alla forma del programma, ma senza sostanza si può fare poco. Senza quel qualcosa che ti fa finire nei box dei siti di informazione hai poco da mostrare. Magari questo tipo di televisione molto informatrice, se cosi s può dire, all’estero funziona. Ma qui da noi ha poco futuro. Ci vuole il sangue! Ci vuole la rissa!

Gli ospiti da talk e il giornalista che deve decidere

Con tutti gli auguri possibili che si possono fare ad un conduttore che si è rimesso in gioco dopo tanta appartenenza ad un canale di successo, c’è una cosa che non si può non dire: gli ospiti vanno saputi scegliere. O per lo meno vanno controllati. Ma bisogna andare per ordine, altrimenti salta la comprensione.
Martedì scorso Gianluca Semprini ha inaugurato la sua avventura in Rai con il programma “Politics” su Raitre. E non si può dire che sia ne un grande esordio ne un completo fallimento. Ma un programma che necessita di rodaggio. Naturalmente non infinito, ma un poco di rodaggio: il giusto. A parte questo, la cosa che la conduzione di Semprini ha fatto venire fuori è una in particolare: certi ospiti non sono abituati al tipo di televisione di Semprini. E non è una cosa bella, positiva. Ma la costatazione che l’ospitame dei classici talk generalisti sembrerebbe essere molto male abituato. Per colpa di chi non si sa. Ma non si può accettare un confronto all’americana e poi fare come Tremonti che dice quello che preferisce.
Bisogna saper dare all’ospite regole certe. Che permettano un buon lavoro al giornalista. Che bene inteso non è e non può essere solo un reggimicrofono.
Per concludere: le cose sono queste: o Semprini tira le briglie quando necessario, anche più volte ripetutamente, o altrimenti deve fare una scrematura di chi invitare o meno. Perché se deve finire tutto in vacca come succede sempre, a condurre va bene un giornalista qualsiasi, perfino l’ultimo vero reggimicrofono…

Un’avventura all’interno della Rai che forse si ripete

In questo momento si sta srotolando, come ha dichiarato la diretta interessata su Facebook, il cantiere aperto del terzo canale delle reti Rai, Raitre. Daria Bignardi sembrerebbe aver iniziato a mettere mano da direttore di Rete al palinsesto del canale. Ma quello che subito stupisce è che un programma che praticamente andava avanti da solo come “Chi l’ha visto” è stato trasformato in una fascia del mattino, e quindi sembrerebbe estirpato dalla sua prima serata che a memoria personale macinava un pacchetto importante di ascolti. Oltre che sostanzioso…
La direttrice Bignardi non è certamente una giornalista di primo pelo a cui si potrebbe attaccare il cartello “raccomandata” o “messa li perché ha i suoi bravi amici“. Nel suo curriculum reperibile nella ricchissima enciclopedia online Wikipedia si trovano esperienze su esperienze. In tutti i campi. Vorrà certo dire che come conduttrice di talk show e quindi come giornalista qualcosa sa. Ha provato sulla sua pelle errori eventuali nel fare un programma anche mentre lo stava confezionando. Tanto sotto direzione altrui quanto dirigendo e pagando di persona.
Il fatto è che quando si pensa al suo lavoro attuale viene in mente una notizia di qualche giorno fa, riguardante la nomina di Carlo Conti a direttore artistico di RadioRai. E cioè la news per cui prima si è fatto repulisti di tanti pezzi del palinsesto delle radio Rai, certamente con una idea in testa di come mandare avanti il carrozzone. Ma poi, tramite la furia degli ascoltatori che hanno mitragliato in rete contro tutti i cambiamenti definiti uno scempio, c’è stato il parziale reintegro di ciò di cui era fatta RadioRai. Se non mi sbaglio – anche se non l’ho trovato scritto a chiare lettere – con le più umili scuse da parte del direttore artistico. Avendo capito, credo, che RadioRai è ciò che è perché l’anima è quella. E pur con tutti i buoni propositi non la si può paragonare ad altre realtà radiofoniche che certamente funzionano tantissimo, ma fanno parte di quello che si potrebbe chiamare un mondo parallelo all’interno della radiofonia. Distante per ovvi motivi da ciò che RadioRai era nel passato ed è attualmente. E di cui Carlo Conti, è bene ricordarlo, non è certamente digiuno nella sua vita agente nel mondo della radio e della televisione.
Cosa c’entra questo con Daria Bignardi? Semplicemente in una parola: attenzione. Si possono fare dei doverosi cambiamenti ad un palinsesto o ad un programma, e farli in adeguamento del tempo presente è cosa buona. Ma al netto di quella che si può chiamare l’anima di un canale televisivo. Che se si toglie un pezzettino di troppo può esplodere, o franare per mancanza di sostegno.

Jolly: “Una frase su un morto detta dai suoi assassini”

Nella maggior parte dei casi sono cose che si dicono da bocca a bocca. Che non finiscono in un servizio televisivo o, senza nulla togliere a Bruno Vespa, sul maxischermo dei titoli di una delle puntate di Porta a Porta. In questo caso, invece, hanno fatto il giro del circo mediatico totale, sperando non quello estero per la vergogna facilmente concepibile: “Abbiamo ucciso Luca per provare l’effetto che fa”.
In questo caso sarebbe facile fare gli adulti della situazione e dire che si tratta di due immaturi. Che l’immaturità sempre più sguazza e si diffonde nel paese, ecc…
Ma qui il tentativo vuole essere diverso. Scavare dove magari non lo si è fatto. E cioè nell’analizzare la frase sopra riportata. A pezzi.
Il primo è “Abbiamo ucciso Luca”. Una frase con un soggetto verbo e complemento oggetto. Ma di solito certe frasi le si estorce ad un accusato. A scanso di errori di cronaca, la confessione è stata piena. E qui scatta un altro particolare: si è persa la percezione del valore della vita? Oppure è una delle tante cose ritenute oramai come merce da social network?
Il pezzo successivo è “per provare l’effetto che fa”. Si tratta della parte che fornisce la motivazione al tutto, a ciò che è successo. Qui inizierebbe una grossa disquisizione. Ma si può fare esercizio di sintesi con una domanda: è la noia o è qualcos’altro che porta delle persone a fare quello che fanno? Perché se si trattasse di qualcos’altro esistono gli psicologi a cui fare affidamento. Se è la noia, vuol dire che c’è un grosso fallimento nella generazione dei genitori che adesso sta agendo se non nel paese Italia in tutto il resto del mondo. Un fallimento perché si è mancato nell’istillare il senso del rispetto di determinate cose in quanto sacre, come la vita.